Arte

Grandi Fotografi: Sebastião Salgado

Come nessun altro autore prima di lui, Salgado fotografa la gente. La ama, la segue, la comprende, si fa rapire dai suoi occhi, si perde nei suoi racconti, ne vuole conoscere le storie e le esalta nelle sue intense fotografie in bianco e nero di vivida nitidezza. Salgado scava inoltre la realtà di paesi agli antipodi come l’Africa o l’Antartide restituendo immagini di antica bellezza che profuma di vastità della Terra. I suoi paesaggi sono resi come imponenti architetture naturali e coloro che guardano le sue foto non possono che rimanerne ammaliati.

«Adoro la fotografia, adoro fotografare, tenere in mano la fotocamera, giocare con le inquadrature e con la luce. Adoro vivere con la gente, osservare le comunità e ora anche gli animali, gli alberi, le pietre. E un’esigenza che proviene dal profondo di me stesso. È il desiderio di fotografare che mi spinge di continuo a ripartire. Ad andare a vedere altrove. A realizzare sempre e comunque nuove immagini.»

Nasce l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile. Nel 1964 comincia gli studi di Economia presso l’Università di Vitòria, nello stato brasiliano di Espirito Santo. Si laurea nel 1967 e in quello stesso periodo sposa Lélia Deluiz Wanick. Collaboreranno insieme a tutti i progetti fotografici e di comunicazione.

Sebastião Salgado e Lélia Deluiz Wanick, 1970

Dal 1969  al 1971, a Parigi, frequenta la Scuola Nazionale di Statistica ed Economia Amministrativa e completa il dottorato. Nel 1971 si trasferisce a Londra, per lavorare per l’Organizzazione Internazionale del Caffè cercando di sostenere la diversificazione delle culture del caffè in Africa. Nei primi anni ’70 prende in mano una macchina fotografica, la Leica della moglie Lélia: capisce che la fotografia è un mezzo duttile e perfetto per conoscere, e far conoscere, il mondo e le sue problematiche sociali.

Un raccoglitore di caffè nella piantagione di Shangri La, Rift Valley, pendici del cratere Ngorongoro, Tanzania 2014
© Sebastião Salgado
Selezione delle drupe di caffè, Piantagione di caffè Shangri La, Tanzania 2014
© Sebastião Salgado

Nel 1973 realizza il suo primo reportage sulla siccità nell’Africa Sud-Sahariana e sugli immigrati in Europa. L’anno successivo lavora con l’agenzia Sygma e viaggia in Portogallo, Angola, Mozambico. Dal 1975 al 1979 collabora con Gamma e lavora in molti paesi tra Europa, Africa e America Latina. Nel 1979 Salgado entra a far parte della leggendaria Magnum Photos e continua a viaggiare in tutto il mondo. Fino al 1983 compie diversi viaggi in America Latina, lavorando soprattutto sulle condizioni di vita degli abitanti: il progetto culminerà nel volume Otras Américas, che ottiene il premio Kodac/Ville de Paris per il miglior libro fotografico. Nel 1985 il suo grande e approfondito lavoro sulla siccità e i suoi effetti nella regione del Sahel, è premiato con l’Oskar Barnack e il World Press Photo e viene ricordato come la storia umanitaria dell’anno. Nel 1987 comincia il suo progetto sul lavoro manuale all’alba del nuovo millennio, che lo impegnerà per molti anni e che, nel 1993, culmina con il volume e la mostra omonima La mano dell’uomo. In tutto il mondo, la mostra è stata visitata da milioni di persone. Riceve altri importanti riconoscimenti: nel 1988 il premio Re di Spagna, l’Erich Salomon (Germania) ed è proclamato fotografo dell’anno dall’International Center of Photography di New York; nel 1989 riceve il premio Erna e Victor Hasselblad, Svezia. L’anno successivo, Salgado lascia Magnum Photos per fondare, con la moglie Lélia, Amazonas Images, una struttura esclusivamente dedicata al suo lavoro. Nel 1997, in collaborazione e con il supporto del movimento dei Senza Terra brasiliani, realizza un nuovo progetto, libro e mostra itinerante, chiamato Terra. Nel frattempo, intraprende una ricerca sui movimenti migratori.

Sahel, Africa sub-sahariana, 1984
© Sebastião Salgado
Campo di Korem, Etiopia 1984
© Sebastião Salgado

Dopo sei anni di lavoro “sul campo”, e 36 diversi reportage nel 2000 nasce In Cammino, il grande affresco sullo spostamento delle popolazioni, un’opera in due volumi accompagnata da una imponente mostra e presentato nei più prestigiosi luoghi espositivi del mondo. Nel 2001 realizza, in collaborazione con l’Unicef e l’Oms, un lavoro di documentazione sulla prevenzione della poliomielite in Africa e in Asia. Nel 1998 fonda, con la moglie Lélia, l’Instituto Terra per la riforestazione della fascia atlantica brasiliana. La salvaguardia dell’ambiente, del resto, è un tema a cui Salgado tiene in particolare modo e nel 2013 esce il suo progetto Genesi. Nel 2014 Isabelle Francq, una giornalista francese, raccoglie in un libro intitolato Dalla mia Terra alla Terrale riflessioni” del fotografo brasiliano, portandoci in paesi lontani, luoghi di immensa bellezza ma anche di profonde ingiustizie come il Brasile, il Ruanda, l’India e l’Antartide.

Iceberg tra Paulet Island e le Isole Shetland meridionali nel mare di Weddell., 2005
© Sebastião Salgado
Uomo che prega tra le dune di sabbia di Maor, Tadrart, a sud di Djanet, Algeria 2009
© Sebastião Salgado
Villaggio Mengnai, distretto di Baoshan Provincia di Yunnan, Cina 2012
© Sebastião Salgado

«Guardare una foto di Sebastião Salgado non vuol dire solo fare l’incontro dell’altro, ma anche incontrare se stessi. Vuol dire fare esperienza della dignità umana, capire ciò che significa essere una donna, un uomo, un bambino. Probabilmente Sebastião nutre un amore profondo verso le persone che fotografa. Altrimenti come potremmo sentirle così presenti, vive e fiduciose? Come potremmo provare quel sentimento di fraternità? È da molto tempo che il suo lavoro mi colpisce. Mi piacciono le sue immagini classiche, le luci sempre straordinarie delle sue foto, la forza che trasmettono e al tempo stesso la tenerezza che infondono e che si raccorda alla parte migliore di me. I casi della vita mi hanno dato l’opportunità di incontrare Sebastião e sua moglie Lélia. Questo duo mi affascina perché, dietro il successo internazionale di Sebastião, c’è una coppia rara. Una storia d’amore e di lavoro in cui ciascuno svolge il proprio ruolo, ciascuno ha il proprio posto e sa tutto quello che deve all’altro. Insieme, hanno costruito una famiglia, hanno fondato la loro agenzia, Amazonas Images, hanno creato Instituto Terra, un progetto ambientale per ripristinare la foresta della fascia atlantica brasiliana, cui sono destinati gran parte degli introiti provenienti dal lavoro e dalla vendita delle stampe delle collezioni.

Anche se le immagini di Sebastião hanno fatto il giro del mondo, mi sono resa conto che la sua storia personale e le radici politiche, etiche ed esistenziali del suo impegno fotografico erano sconosciute. Ho voluto allora porre rimedio a questa mancanza, facendo sentire la voce di Sebastião attraverso la mia penna di giornalista. Lui ha avuto la cortesia di accettare, poco prima della presentazione del suo progetto Genesi – una serie di reportage dedicati ai luoghi incontaminati del pianeta. E si è reso disponibile fra un aereo e l’altro, fra un reportage e l’altro, nonostante la preparazione di due libri e le inaugurazioni della mostra ai quattro angoli del mondo. Con una gentilezza e una semplicità disarmanti, ha ricostruito davanti a me il suo percorso, ha esposto le sue convinzioni, mi ha fatto partecipe delle sue emozioni. Da parte mia, ho provato un immenso piacere ad ascoltarlo e ora vorrei condividere con i lettori la sua maestria di narratore e l’autenticità di un uomo che sa coniugare militanza e professionismo, talento e generosità».

Isabelle Francq

Prima comunione a Juazeiro do Norte, Cearà, Brasile 1981
© Sebastião Salgado
La miniera d’oro di Serra Pelada, Brasile 1986
© Sebastião Salgado
Dhanbad, Stato di Bihar, India 1989
© Sebastião Salgado
Giacimento petrolifero di Burhan, Kuwait 1991
© Sebastião Salgado
Isole South Sandwich, 2009
© Sebastião Salgado
Kafue National Park, Zambia, 2010
© Sebastião Salgado

«Spesso mi chiedono se la mia formazione di economista mi abbia influenzato nel lavoro di fotografo. Credo di sì, ma non è solo questo. In realtà, ancora oggi fotografo portando dietro tutto il bagaglio di ciò che ho vissuto. Il mio periodo di formazione universitaria, la mia esperienza lavorativa, tutto è stato importante.

Ma non è solo una questione di studi. Alla base dei miei desideri e delle mie capacità di lavorare esiste una grande motivazione sociale. Io vengo dal Brasile. Un paese di forti contrasti e di grandi lotte anche sociali. Ho militato in molte organizzazioni, ho fatto attività politica nel mio paese: tutto ciò mi ha portato, allora, ad aiutare e trasformare un poco la realtà in cui vivevo. Sono entrato all’università e una volta terminati gli studi ho cominciato a lavorare come economista. A un certo punto del mio cammino ho scoperto la fotografia e dal quel momento in poi ho capito che si poteva comunicare in altro modo, più facilmente. Tutto ciò da cui venivo – la mia formazione sociale, gli studi fatti, gli approfondimenti di sociologia, antropologia, geopolitica è stato come travasato, con i rispettivi strumenti, nella fotografia.

Dall’inizio sino ad oggi faccio versioni differenti della stessa storia. Una storia che, in fondo, è la storia dell’evoluzione dell’umanità vista nel momento storico che stiamo vivendo. Ecco cosa mi interessa: vivere il momento storico e testimoniarlo.

Io fotografo come il mio paese mi ha insegnato a guardare. Ad esempio, fotografo moltissimo in controluce. In qualsiasi situazione mi trovi, se capisco che in controluce potrei ottenere un effetto maggiore, non esito un istante. E questa è veramente un’eredità brasiliana. A casa mia, quando ero piccolo, per otto mesi l’anno vivevamo la terribile siccità, con un sole abbagliante da spaccare le pietre: questa luce ha profondamente condizionato il mio modo di vedere. Quando nella mia infanzia osservavo mio padre tornare a casa, la sua immagine mi appariva in controluce: procedeva nell’ombra per ripararsi dal bagliore accecante, con il suo cappello. In quella che forse potremmo chiamare “la mia estetica” – che è poi il mio modo di vedere – c’è ancora molto il riflesso della mia esperienza da piccolo.

Ma anche la pioggia mi ha influenzato. Nel mio paese, ogni anno, dopo la siccità e il caldo, arrivava la stagione delle piogge e per tre o quattro mesi vivevamo sotto una pioggia incessante, torrenziale. In quei mesi tutto appariva bianco e nero. Ricordo nuvole che da bianche aumentavano gradualmente di densità, passando dal grigio al nero più profondo. Ricordo i temporali, quando pieno di paura mi stringevo a mia madre. Quelle stesse nuvole pesanti si ritrovano spesso nelle mie immagini e il cielo nelle mie foto è ancora il cielo della mia infanzia.

Se un giovane fotografo, oggi, mi domandasse cosa deve fare per diventare fotogiornalista, io risponderei – come di fatto rispondo – di fermarsi, di non fotografare per un po’ e invece studiare sociologia, antropologia, economia.

Quando si riesce a comprendere il momento storico in cui viviamo, si riesce a saldare le proprie fotografie alla realtà, alla storia. Solo a questo punto le foto non hanno limite. Ogni lavoro fotografico deve poter essere visto all’interno di un processo. Se si riesce a comprendere tutto ciò, allora si può viaggiare dentro questo sistema.

Il legame tra le persone ritratte e l’ambiente è sempre molto forte nelle mie immagini. L’uomo è parte dell’ambiente in cui vive, parte della comunità. A volte la gente mi chiede come mai io fotografi sempre i miserabili… Ma i soggetti delle mie immagini sono semplicemente persone che hanno meno mezzi materiali a disposizione. Non si tratta di “poveri”, ma di gente con una dignità, una profonda nobiltà. Persone che fanno parte di un gruppo e magari sperano, intensamente e con determinazione, di poter costruire qualcosa nella loro vita: un ambiente migliore, una vita diversa per il gruppo sociale di cui fanno parte.

Io cerco l’uomo, nelle mie foto. Al fondo di tutto, bisogna capire che la realtà è fatta dall’uomo e che l’uomo è sempre lo stesso identico essere, al di là del colore di pelle. Lo stesso animale, che si organizza in comunità simili in tutte le parti del mondo.

I conflitti, le lotte, le rivoluzioni, sono legate l’uno all’altra. Per poter fare una buona fotografia di documentazione deve esserci una rappresentatività, e per esserci rappresentatività bisogna avere un approccio globale. Quando fotografo compio un’azione di comunicazione, ma anche politica e sociale, economica.

Questo è il mio discorso, il mio viaggio continuo.»        

Sebastião Salgado

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