
LE ORIGINI DEL BLU E IL SUO CONTRIBUTO ALL’ARTE
La storia del colore blu è intrisa di un fascino suggestivo e in antichità era considerato merce preziosissima quanto rara. Sulla mente ha un immediato effetto calmante poichè ci riporta alla memoria due elementi della natura legati alla vastità del creato: il cielo e l’oceano. Alcuni scienziati ritengono però che gli uomini primitivi fossero daltonici, senza la capacità di riconoscerlo, di conseguenza il concetto di blu per molto tempo non è esistito, tanto che non vi erano neanche termini per descriverlo. Ciò prende corpo anche in letteratura, l’Odissea di Omero infatti descrive l’oceano come un “mare rosso vino”.

Gli antichi Egizi furono i primi in assoluto a sperimentare con successo delle tecniche per ottenere un pigmento sintetico permanente. Per i successivi 6000 anni, la pregevole materia è stata plasmata dai grandi artisti per dare vita a molte delle opere d’arte più famose al mondo. Il blu egiziano (noto anche come cuprorivaite) fu ricavato intorno al 2.200 a.C. mischiando del calcare macinato con sabbie e un minerale contenente rame, come l’azzurrite o la malachite, fusi a circa 1600 gradi. Il risultato fu una sostanza vitrea che veniva addensata con l’albume d’uovo al fine di ottenere una vernice o una glassa duratura.

Il popolo del Nilo lo teneva in grande considerazione associandolo al cielo e all’acqua come simboli di vita, rinascita e alto lignaggio.
Nel 2006, gli scienziati hanno scoperto che il blu egiziano si illumina sotto luci fluorescenti, ad indicare che il pigmento emette radiazioni infrarosse. Questa scoperta ha reso molto più facile per gli storici identificare il colore su antichi manufatti, anche quando non è visibile ad occhio nudo.
Il blu oltremare è un silicato di sodio e alluminio in forma di cristalli noto come lazurite. In natura si trova una composizione simile nella pietra lapislazzuli. Le prime tracce del suo utilizzo si trovano in Oriente (Siria, Palestina, Egitto) e solo intorno all’epoca medievale fu trasportato in Europa attraverso le rotte navali, da qui l’etimologia del suo nome: oltre il mare. Conosciuto anche come vero blu, se ne hanno testimonianze negli antichi templi afgani dove risiedeva anche il più grande giacimento di lapislazzuli. Fu importato nel nuovo mondo da commercianti italiani ed era considerato più prezioso dell’oro, solo pochi privilegiati potevano permetterselo, il suo valore quasi sacro è testimoniato dai Manoscritti Miniati del 1200.

L’ultramarina infatti era di solito riservata solo alle commissioni più importanti, quasi sempre di carattere religioso. Il pittore Johannes Vermeer, autore de La ragazza con l’orecchino di perla, sviluppò una vera e propria ossessione per questo colore, che lo trascinò nei debiti. Durante il Rinascimento, il suo impiego toccò il massimo splendore, ricordiamo il maestoso sfondo della Cappella Sistina ad opera di Michelangelo e i dipinti del Beato Angelico.

Il blu cobalto risale all’VIII e al IX secolo e fu utilizzato per colorare ceramiche e gioielli. La Cina divenne famosa per la porcellana Ming, di un bianco splendente, caratterizzata dai tipici motivi floreali di questa tonalità. In seguito venne sintetizzato in Francia. Pittori come Turner, Renoir e Van Gogh iniziarono a usare il nuovo pigmento come alternativa alla costosa ultramarina. Una curiosità: il blu cobalto viene anche chiamato blu parrish perchè l’artista Maxfield Parrish lo usava in grandi quantità per creare i suoi intensi panorami.

Il blu indaco è invece una sostanza naturale ricavata dalle foglie di una pianta originaria dell’India, chiamata Indigofera tinctoria. La sua importazione ha rivoluzionato il commercio tessile europeo nel XVI secolo ed ha provacato addirittura delle guerre commerciali tra Europa e America. L’uso dell’indaco per la tintura dei tessuti era molto popolare in Inghilterra e veniva usato per tingere i vestiti. Questo pigmento è ancora usato oggi per tingere i blu jeans. Proprio recentemente, alcuni studiosi hanno scoperto che un batterio può essere bio-ingegnerizzato allo scopo di scatenare la stessa reazione chimica che produce indaco nelle piante. Questo metodo, chiamato bioindaco, avrà probabilmente un ruolo importante nella produzione del denim ecologico del futuro. In Marocco, esiste un’antica città chiamata Chefchaouen, le cui mura, sviluppate a spirale, sono completamente dipinte con l’indaco. Mentre si passeggia per i suoi vicoli, si ha la sensazione di essere immersi nell’acqua, per questo motivo è chiamata la città blu, una meta turistica esotica molto ambita.

Conosciuto anche come blu berlinese, il blu di Prussia è stato scoperto grazie ad un errore involontario del coloratore tedesco Johann Jacob Diesbach. Diesbach stava lavorando alla creazione di un nuovo rosso attraverso la mescolanza di due elementi: il cloruro di potassio ed il sangue animale. La reazione chimica che ne risultò non fu di un rosso più accesso ma al contrario, di un blu vibrante e intensissimo. Il pittore giapponese Hokusai ha consegnato alla storia il blu di prussia attraverso la sua opera più iconica: Onda al largo di Kanagawa, così come le altre xilografie nella serie Trentasei viste del Monte Fuji. Anche Picasso lo ha scelto per firmare il suo meraviglioso periodo blu. Nel 1842, l’astronomo inglese Sir John Herschel scoprì che il blu di Prussia aveva una sensibilità unica alla luce ed era la tonalità perfetta per creare copie dei disegni. Questa scoperta si è rivelata preziosa per gli architetti e i sarti, che ancora oggi lo utilizzano per siglare i loro progetti, le cosiddette piante grafiche e i cartamodelli.

Alla ricerca del colore del cielo, il pittore francese Yves Klein ha sviluppato una versione modificata di blu oltremare, straordinariamente brillante. Quindi lo ha registrato come marchio di fabbrica con le sue iniziali: IKB (International Klein Blue), divenuto la sua firma tra il 1947 e il 1957, periodo in cui ha prodotto oltre 200 tele monocromatiche, alcune sculture e le celebri opere dove utilizza i corpi umani come stampe. Una volta Klein ha affermato: “il blu va oltre ogni dimensione “ sostenendo la sua capacità di portare lo spettatore fuori dalla tela stessa.
L’azienda statunitense Pantone, la prima a mettere a punto un sistema di quadricromia per classificare i colori, ha rilasciato un comunicato pubblico in cui dichiara che il blu classico è il colore del 2020, la tonalità del futuro.

“Se solo questo blu profondo potesse parlarmi di quando, anche io, ero un colore.“











Un commento
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